Pietro Lorenzon, Ragusa, Serenissima Repubblica di Venezia, 9 Ottobre 1724
Mi si lasci umilmente iniziare questa mia narrazione con una presentazione, la quale serva al leggitore per concepire l’idea di quest’opera avanti di leggerla; io sono il modesto assistente e servo del grande medico e farmacista, la cui fama si estende oltre i confini della Serenessima Repubblica, messere Venanzio de Ponti. Se tale nome risveglia in Voi, l’immagine di un grande studioso e colto conoscitore della medicina e della botanica, allora è sì vero che portate l’onore di averlo conosciuto, oppure se il leggitore ha avuto la fortuna di poter esaminare, negli annali della scienza della Repubblica, l’illuminato articolo: “Scoperta del principio purpureo dei due Murex trunculus e Murex brandaris e studio delle sue proprietà”, ebbene sappia che proprio dell’autore di tale importante studi, il sottoscritto sta con modestia e immerito narrando.
Ora, perché sono parti della geografia la nomenclatura e la corografia, o sieno nominazione e descrizione de’ luoghi, principalmente delle città, per compimento della sapienza ci rimane da definire, che, quanto si andrà a descrivere è accaduto nella città di Venezia, nella dimora ‘de Ponti’ del calle dello scirocco. Fu in tal dimora che’l padron mio, in un infausto giorno, rincasando, portò ai suoi servi e ai suoi figli, la notizia del malore che da giorni l’affliggeva. Un malore senza nome, ma che si spandea per tutto il corpo suo e a cui non servirono i consulti con alchimisti o guaritori, chè nessun beneficio parve venir ad dar sollievo al messere.
Perché, come pur sopra abbiam ragionato, cura non compariva, il messere annunciò a noi tutti di una soluzione antica che volea provare, il cui nome è noto a tutti come ‘salasso’; ma non fatto con la Clitellata Hirudinea, in uso da millenni e gitata già nelle opere di Celio Aureliano e del suo maestro Asclepiade di Bitinia, bensì di una specie nuova portata dalle terre del sud del nuovo mondo, un unico anellide più grande, viscido, capace di unire oltre al salasso, la secrezione di sostanze anestetizzanti e antidolorifiche che creino giovamento, ai martoriati corpi che la accettan.
Giacchè gli si conceda pure ciò, che certamente deelesi dare, parte del benefico effetto nei primi giorni della cura, parea vedersi. “Giovamento, giovamento!” il signore mio soleva dire in quei giorni; eppur agli occhi miei, agli sguardi dei suoi figlioli e delle altrui persone, la veduta mostrava un ritratto infausto, le energie del signore mio, si avvizzivano come il suo corpo ed il suo colore.
Sebbene candido ormai nella pelle e adombrato nello spirito, il messere non volea ascoltar le suppliche di noialtri a lui cari, che gli chiedean di arrestar la cura e staccarsi dal viscido salassante anellide che ne carpiva le forze e le energie. A nulla valsero le nostre suppliche, “Ciechi Voi, che non vedete la verità ed i benefizi!” additando, andaa’ dicendo a color che cercavan, di dar lui consiglio.
Un giorno, quando ormai speme parea perduta ed il messere mio un involucro vuoto, accadde che quella che, cura dovea essere, ma funesto messaggero divenne, si staccò per suo conto, dal corpo esangue del signore mio. La linfa di cui abbisognava, non avea più da prendere e strappando un ultimo dilaniante rantolo al mio padrone ne lascio l’esistenza al suo destino; il messere mio con le ultime forze supplicò di richiamare la sua cura e ne patì la perdita, in quel che, il fallace senso anestetico, che dava con essa, se ne era andato.
Io umile servo, con le persone care, a lui ci stringemmo in quei che parevan i giorni più bui dell’esistenza sua, ed i tramonti passaron in questo modo; ma piano piano con affetto e cure accadde ciò che non parea più possibile, il colore tornò nelle gote forti del messere, la sua voce tornò ad impartire ordine e la sua figura imponente a stagliarsi sulla torrazza della villa. I tetri giorni eran finiti per lasciare spazio a nuova vita, nessuno mai volle di rinfaccio ricordar le proprie parole, ma di quei giorni rimane un ricordo… Nel calle dello scirocco, accanto all’insegna della farmacia più insigne della Serenissima, è incisa la frase : “Non esiste malattia peggiore de la errata cura”